Capitolo I

Se [il mistico fiume] rompe le forme tradizionali 
è perché in esso vive lo Spirito che soffia dove vuole, 
che ha creato tutte le forme tradizionali 
e che ne crea continuamente di nuove. 
(Teresa Benedetta della Croce)

Il ponte. Il ponte non è che cavi piegati sotto il peso delle barche. Il fiume. Il fiume è un’unica lorda corrente nera. Gorghi eleganti nell’inchiostro, vicino ai pali di ontano. Forza primordiale, tenace, nella notte livida. Lembi di nebbia scivolano sulle onde convulse.

Io sono il Cardine. Il mio nome non è importante, ne ho avuti molti e molti ne avrò, e non farà alcuna differenza. I nomi cambiano, cambiano gli svolazzi in fondo alle carte. Il nome non ha nulla a che vedere con la funzione. E io sono funzione.

Attraverso il ponte. Assi instabili, travi viscide, aria che sa di acqua rancida e legno marcio. Odore di fiume e di fango, l’odore che fanno i lucci sventrati. Non si vede che qualche stella soffocata dalla caligine, occhi lacrimevoli e distanti nel buio di un cielo altrimenti compatto e silenzioso come un drappo di velluto scuro.

Mi muovo circondato dal mio potere. Che anche qui, nel buio di questo guado dimenticato e oscuro, mi avvolge e mi protegge. Fino ad un certo punto. Oltre il ponte c’è la pianura maledetta. Corpi deformi, ombre, paure che si addensano, immagini che balenano per un istante e poi tornano a scomparire inghiottite dalla notte che le ha generate, fantasmi, illusioni, membra disarticolate di un terrore più grande, un essere gigantesco ed informe senza scopo e senza intelletto. Un essere che conosco bene. Per come può essere conosciuto.

Mi fermo a metà del ponte. Guardo le onde nere inseguirsi in una corsa insensata e violenta, spezzarsi, ingoiarsi a vicenda e scomparire nel grande flusso della corrente. C’è un suono che non è un rombo, non è un ruggito, è qualcosa di ancora più basso, una vocale chiusa e monotona che si ripete incessantemente e sembra allontanarsi per poi riprendere più vicina, mescolata a mille fruscii, al gemere delle catene, allo sciabordio costante sul fondo delle barche. Qualcosa che mi ricorda che questa sostanza nera e densa è solo acqua. Non solo. C’è altro. Dal cielo piovono poche gocce di pioggia pesanti, che si schiantano sulle assi di legno già umide con tonfi leggeri e regolari. Un lampo lontanissimo emerge dalle viscere dell’orizzonte, seguito da un tuono leggero, come una risata che si spegne in un rantolo di tosse. Non posso attraversare qui. Mi aspettano. Sanno.

Mi avvicino al bordo delle assi sconnesse, il fiume mugola a meno di un braccio, freme, si contorce, si increspa e torna ad essere nulla. E’ questo che fanno i fluidi, è questo che siamo, tutti quanti. Esseri informi che per un istante si addensano nell’apparenza di una immagine racchiusa nel grottesco tabernacolo che chiamiamo vita, e poi si dissolvono nuovamente, rifluendo nel nulla. E’ questo che sono anche io. Ma la mia forma è differente.

Ho un corpo e non ho un corpo. Penso e conosco, ma non sono il mio pensiero e nemmeno il mio non trascurabile fardello di conoscenze. Tutto è volto ad altro. Non a me stesso, ma alla mia funzione. Io sono uno strumento. Io sono cardine. Le linee del destino mi ruotano intorno. Io sono l’effetto che produco. Io sono la mia ombra. E la mia ombra, adesso, si getta nel fiume.

Emergo a cinquanta, forse cento passi dal ponte. L’acqua è gelo puro, ma posso ignorarlo. Invece, ho goduto del silenzio dell’acqua. L’orrore di questo ventre spasmodico si è trasformato in un totale, assordante abbraccio. Tutto si è fatto muto di colpo, mi è sembrato di affondare in un sogno dentro ad un altro sogno. Per altri esseri questo sarebbe stato terrore e morte, ghiaccio che spezza il respiro, ultimi assaggi d’aria disperata prima di scomparire per sempre. Non per me, io posso proteggermi. Il mio potere viene dal mio scopo. Io sono un cardine, ma anche i cardini si possono spezzare: tutto dipende dalla forza che devono piegare.

Emergo e guardo la riva lurida e fangosa davanti a me. Esseri curiosi si contorcono nel limo viscido. Altri sembrano luminescenze vaghe sull’erba che si stende oltre l’argine. Attendo. Il canto rauco del fiume mi segue, ora sono in sintonia con lui, non sono più un ostacolo. Scorro e divento acqua torbida io stesso. Fluisco con questo essere inconsapevole della propria forza, che si agita senza uno scopo se non la propria stessa esistenza. So che non sono solo. Le membra del grande orrore universale hanno propaggini anche in queste acque tormentate. Fauci, grandi corpi di pesce, viscidi tentacoli vegetali, occhi. Non devo dar loro il tempo di avvertire la mia intrusione. Anche se il mio corpo è acqua nell’acqua, anche se sono io stesso parte del fiume, essi mi vedranno. Sapranno cosa fare.

Leggo e ascolto le correnti, spinte possenti in ogni direzione. Ma in ogni caos c’è un disegno, e quello del fiume è chiaro. Come un albero che si ramifica incessantemente, il tronco della corrente principale che scorre nel baricentro del fiume genera poche robuste correnti secondarie che si dividono in infinite correnti, sempre più deboli, sempre più lontane dalla forza centrale. In ognuna di queste miriadi di correnti il fiume perde forza e velocità, mentre l’immane spinta centrale continua ad alimentare la sua stessa insaziabile fame di scorrere. Il fiume divora se stesso, il fiume combatte se stesso, il fiume perde se stesso. Nell’eterno, ottuso dolore del suo conflitto, il fiume si uccide e rinasce mille volte al secondo. Vorrebbe fermarsi, ma la sua pulsione incessante lo trascina via? O vorrebbe scorrere in tutta la sua immane potenza, ma il suo alveo terreno lo sfinisce dissanguandolo costantemente? A me non importa, e nemmeno al fiume, che non vuole nulla: esiste semplicemente, incastrato nella necessità di essere quello che è: ciò che muore di continuo non muore mai.

A me basta seguire una corrente secondaria, poi un’altra più debole, poi un’altra ancora, resistente per qualche istante contro un riflusso, scivolare verso correnti che posso combattere e vincere. Mi faccio trasportare verso una spalla di fango che emerge a stento in un punto in cui la corrente è minima e il fiume quasi ristagna schiumando debolmente. Sento il terreno viscido sotto i piedi, appoggio le mani sulla superficie perfettamente levigata del limo, lasciando profonde impronte che verranno cancellate in pochi minuti. Scivolo, arranco, affondo le mani nel fango, punto i piedi, emergo, riaffondo, raggiungo la terra più solida, mi arrampico sulla sponda franata da cui spuntano radici rossastre e contorte, come organi interni messi a nudo da una brutale lacerazione. Afferro l’erba del prato, umida e fresca, mi tiro su di peso, rotolo su un fianco, rimango sulla schiena a guardare un cielo assente e immobile, mentre lascio una impronta di fango sul prato sotto di me.

Riprendo il respiro e la sintonia con i dintorni. Ascolto. Ci sono suoni leggeri e striscianti, la nenia triste dei grilli, e una rana isolata che si squarcia la gola in un canto ansioso e disperato. Mi alzo lentamente, guardo verso Nord. Piccoli esseri luminescenti tracciano l’aria con strie verdastre. Esseri più pesanti smuovono gli sterpi e le foglie, nel sottobosco. La mia ombra avanza e lascia dietro di sé le tracce di fango e acqua lurida. Forse non mi hanno mai davvero toccato.

La mia meta è molto oltre, lungo il tracciato incerto e pietroso del sentiero che si snoda davanti a me. La mia meta è la casa di tutte le ombre. Io non ho una meta: io sono la mia meta.