Capitolo II

Il vento soffia a mezzogiorno,
poi gira a tramontana;
gira e rigira e sopra i suoi giri
il vento ritorna
(Qoèlet)


Notte di ombra nell’ombra. Una vegetazione fitta e malsana tenta di invadere e soffocare il corso del sentiero pietroso, composta di steli ed escrescenze che nel debole chiarore percepito dai miei occhi appaiono di un verde morto con venature violacee. Distinguo odori dolciastri, di melassa avariata, forse emanati dai fiori grigi che pendono oscenamente da peduncoli ricurvi, odore di sabbia smossa, foglie marce, pollini invisibili che lasciano un sentore di turibolo e di gesso. Odore grasso di sottobosco, muffe, marcescenza, e qualcos’altro, che non riesco a definire, che non dovrebbe esserci, non qui.

Un lampo, fuoco rosso, giallo, arancione. Palla incandescente ed esplosiva che mi corre incontro. Mi separo dal tempo, rallento la scena. Colpo di arma da fuoco, da destra, il proiettile rovente sta esplodendo un metro davanti a me. L’onda d’urto mi solleva e mi lancia oltre la siepe di sterpi e foglie urticanti, verso il prato che si stende alla mia sinistra. Calore violento sul mio volto e sul braccio destro. Scelgo di ignorarlo, mi concentro sulla traiettoria di atterraggio. Ruoto nell’aria, mi predispongo al contrattacco, il mio corpo in direzione del nemico, lo sguardo puntato oltre la siepe.

Atterro sulla gamba sinistra e il ginocchio destro, scivolo leggermente indietro sull’erba umida prima di fermarmi. Esaurisco quasi completamente l’inerzia e scatto in avanti, tre passi lunghi di corsa, poi le mie gambe si piegano in modo diverso, il tronco si getta in avanti e le braccia partecipano alla corsa. Desidero che sia così. Tre passi da uomo e un balzo da giaguaro, gambe flesse, dita delle mani che si conficcano nel terreno, tra le radici sottili dell’erba, presa sicura, artigli, muscoli, tutto scatta in una frazione di un battito di ciglia.

Supero abbondantemente la siepe, punto ciecamente verso la direzione che so essere quella dell’Assassino. Perché mentre spiccavo il salto, ho pensato, ho cercato, ho ricordato. L’odore che avevo sentito era cuoio e salnitro, so cosa troverò al termine del mio balzo. Supero la siepe e lo vedo, i suoi occhi rossi debolmente luminosi sotto la maschera nera e carminio. Mi vedono, gli occhi rossi, cercano di seguire la mia parabola. Anche la canna dell’arma, fucile corto a canna ottagonale, con tacche che luccicano appena dove si è usurata la brunitura, cerca di seguirmi. Si solleva, cerca di intercettare la mia traiettoria. Troppo tardi, troppo lento. Il secondo colpo passa sotto di me, ne avverto la calda, globulosa carezza sul ventre. Aria che si comprime in onde d’urto concentriche, dalla forma vagamente simile ad una cipolla, palla che si perde lontano, nella notte.

Arrivano per prime le mie mani. Afferrano l’elmo e la maschera, fanno perno, ruotano. Tutto il mio corpo è per un attimo in equilibro sulla testa dell’Assassino dagli Occhi Rossi. Poi scende alle sue spalle, la testa ancora saldamente ancorata tra le mie mani. L’equilibrio dell’Assassino vacilla pesantemente all’indietro. Non emette un suono, non ne ha il tempo. Rotazione discendente, schiocco umido, vertebre che vanno in frantumi, silenzio. Gli occhi rossi dell’Assassino sono spenti.

Rimango inginocchiato vicino al corpo, una mano sul suo petto immobile. Tra gli arbusti ispidi, le foglie strappate, un leggero turbamento tra gli insetti che strisciano incessantemente sul terreno. Silenzio, devo fare silenzio. Ascoltare. Suono ritmico, tonfi cadenzati, pietre che rotolano su altre pietre. Non era solo, l’Assassino. Ecco la sua Legione. Non so quanti siano, tanti, troppi. Anche il cardine può essere spezzato. Striscio sul fianco della collina, tra i cespugli, trascinandomi dietro il corpo dell’Assassino. Via dalla strada, via dalla vista, nel buio, nel silenzio. Trovo un buon punto dove nasconderlo. Certo, lo troveranno, più tardi. Se lo cercheranno bene. Intanto guadagno tempo, guadagno metri sul fianco della collina. Non devo fare rumore, e se sono costretto, deve sembrare il rumore di un animale, di una di quelle bestie tozze e feroci che scavano nel terreno in cerca di larve.

Sento che sopra di me, poche decine di metri più in alto, il sentiero riprende dopo un tornante. La Legione scende, io risalgo. Striscio come una bestia del sottobosco, ne imito il passo nervoso, gli spostamenti frenetici seguiti da brevi pause per annusare l’aria, annusare il buio, annusare la paura, annusare un predatore.

E l’odore arriva: pungente, ferino. Pelo, saliva, urina. Lo vedo strofinare il dorso sulla corteccia di una conifera sghemba. La corteccia sfrigola e si stacca in grandi scaglie rossastre, rivelando il tronco chiaro e resinoso. E’ grande come un uomo. E’ forte almeno cinque volte tanto. Ha zanne e artigli, ed è affamato di una fame eterna, vecchia e grande come il mondo. Una fame profonda ed infinita, che l’uomo non potrà mai conoscere. L’uomo può morire di fame senza nemmeno immaginare cosa siano la voracità e l’inedia di un grande Lupo-Ombra.

La belva ruggisce un brontolio cupo e profondo, mentre ripassa sull’albero martoriato. Mi sbarra la strada: non posso tornare, non posso avanzare. Devo scegliere, il Lupo o la Legione. Scelta facile. Lascio che la bestia mi avverta, voglio deciderlo io, non aspettare che accada. Il Lupo si torce su se stesso, scruta il buio con i grandi occhi gialli, annusa, emette un ruggito diverso, più chiaro, il suono stesso della ferocia. Ma c’è una nota di paura in quel ringhio. Paura dell’ignoto. Non sono una preda, non sono un Lupo. Non c’è altro nel suo mondo, quindi: cosa sono?

Avanzo, non più strisciando, mi alzo in piedi nella piccola radura. Esco dalle ombre assolute ed entro nel debole chiarore stellare. Apro le braccia, sono una grande croce nera sul nero del bosco. Il Lupo-Ombra porta indietro una delle possenti zampe anteriori: dubbio. Scopre le zanne in un ringhio violento: ferocia. Bava vischiosa cola dalle sue fauci serrate: fame eterna. Il pelo sulla schiena, tra i lombi e il garrese, si solleva come una lunga criniera grigia: orgoglio. I muscoli delle zampe posteriori si tendono: preparazione. Io avanzo solo di un passo, lentamente. Lo fisso negli occhi, che seguono i movimenti del muso a destra e a sinistra tenendomi però sempre inquadrato e sotto tiro, senza mai perdermi. Rimango immobile. Il Lupo freme, cerca un pretesto per scattare all’attacco, cerca un segno di paura, di fuga, di cedimento, un minimo segno che scateni la furia. Non gli do nulla di tutto questo.

Invece ascolto, leggo. La storia del Grande Lupo-Ombra nei suoi occhi, nella sua memoria piena di tracce di animali, di percorsi segreti, di luoghi d’appostamento, di una unica, eterna fame che lo segue fin dal suo primo giorno di vita. Nasce con sei fratelli, due muoiono subito, scompaiono. Calore del ventre della madre, il suo pelo tenero e profumato nel buio della tana. L’odore della terra. La prima lama feroce di luce negli occhi socchiusi e lacrimosi. Il primo sangue, brandelli di viscere e muscoli portati dalla madre, la scossa violenta del suo corpo al sapore di quella sostanza rossa e vischiosa. Capire che tutti sono fatti di carne e sangue, il delizioso sangue. Anche i fratelli. Anche la madre. L’allontanamento, la solitudine, la ricerca di una propria identità. Gli istinti, i combattimenti con gli altri maschi, le ferite, le sconfitte, innumerevoli, spesso quasi mortali. Nessuna paura nel dolore. Lunghe attese, con il corpo scavato dal desiderio di sangue. Prede, finalmente. Ossa che si spezzano, gole che si squarciano, lampi di piacere assoluto, vivissimo. Carni che si lacerano, sangue, tanto, caldo. Finalmente. E vittorie, maschi dominanti che fuggono uggiolando, e poi smettono di combattere, gli cedono il passo, gli concedono l’unica forma di rispetto conosciuta dai Lupi: lo spazio. Miglia e miglia di territorio per la sua fame ancora più sterminata. Gli inverni, il freddo, il sonno senza sogni che sembra morte, il risveglio, le estati magre e aride, i tardi autunni pieni di selvaggina stordita. E ancora sangue. E ancora fame. Femmine, alla fine dell’inverno. Una, in particolare. Un odore unico, inconfondibile, a miglia di distanza. Ambra, resina, desiderio. Pochi giorni di giochi e rituali, gli unici giorni della sua vita in cui il ricordo della fame non è presente. E poi il ritorno alla solitudine, alle piste, all’odore delle prede, della loro paura, della loro malattia, della loro morte.

E ora qualcosa di completamente nuovo. Tempesta. Io sono tempesta. Mi sta associando al tuono, alla nuvola scura che rigetta grandine, al vento. E sarà il vento a parlarti, grande animale.

La foresta è tua.
Tue sono le prede.
Tua è la terra.
Tuo è il sangue.
Io sono vento.
Il vento passa.
Tu rimani.

Nessuna reazione. Occhi gialli, riflessi obliqui di luce che li rendono quasi trasparenti. Specchi che concentrano la poca luce delle stelle. Nessuna pietà. Nessun passo indietro. Avanzo lentamente. Il Lupo-Ombra mi ruota attorno. Come una massiccia porta ruota intorno ad un cardine che non vacilla. La porta compie una mezza rotazione completa. Sarà questo cardine abbastanza forte? Rimarrà al centro del suo sguardo senza abbandonare il suo asse?

Io ho letto la tua storia, Grande Lupo Alfa. Tu sai leggere la mia? Non c’è nulla davanti a te che si possa divorare, non c’è nulla che possa ferirti. Io sono solo il vento che ti passa accanto, non porta nulla, non prende nulla, e quando lo senti passare, e alzi il muso per afferrarlo, ormai è già lontano.

Capitolo I

Se [il mistico fiume] rompe le forme tradizionali 
è perché in esso vive lo Spirito che soffia dove vuole, 
che ha creato tutte le forme tradizionali 
e che ne crea continuamente di nuove. 
(Teresa Benedetta della Croce)

Il ponte. Il ponte non è che cavi piegati sotto il peso delle barche. Il fiume. Il fiume è un’unica lorda corrente nera. Gorghi eleganti nell’inchiostro, vicino ai pali di ontano. Forza primordiale, tenace, nella notte livida. Lembi di nebbia scivolano sulle onde convulse.

Io sono il Cardine. Il mio nome non è importante, ne ho avuti molti e molti ne avrò, e non farà alcuna differenza. I nomi cambiano, cambiano gli svolazzi in fondo alle carte. Il nome non ha nulla a che vedere con la funzione. E io sono funzione.

Attraverso il ponte. Assi instabili, travi viscide, aria che sa di acqua rancida e legno marcio. Odore di fiume e di fango, l’odore che fanno i lucci sventrati. Non si vede che qualche stella soffocata dalla caligine, occhi lacrimevoli e distanti nel buio di un cielo altrimenti compatto e silenzioso come un drappo di velluto scuro.

Mi muovo circondato dal mio potere. Che anche qui, nel buio di questo guado dimenticato e oscuro, mi avvolge e mi protegge. Fino ad un certo punto. Oltre il ponte c’è la pianura maledetta. Corpi deformi, ombre, paure che si addensano, immagini che balenano per un istante e poi tornano a scomparire inghiottite dalla notte che le ha generate, fantasmi, illusioni, membra disarticolate di un terrore più grande, un essere gigantesco ed informe senza scopo e senza intelletto. Un essere che conosco bene. Per come può essere conosciuto.

Mi fermo a metà del ponte. Guardo le onde nere inseguirsi in una corsa insensata e violenta, spezzarsi, ingoiarsi a vicenda e scomparire nel grande flusso della corrente. C’è un suono che non è un rombo, non è un ruggito, è qualcosa di ancora più basso, una vocale chiusa e monotona che si ripete incessantemente e sembra allontanarsi per poi riprendere più vicina, mescolata a mille fruscii, al gemere delle catene, allo sciabordio costante sul fondo delle barche. Qualcosa che mi ricorda che questa sostanza nera e densa è solo acqua. Non solo. C’è altro. Dal cielo piovono poche gocce di pioggia pesanti, che si schiantano sulle assi di legno già umide con tonfi leggeri e regolari. Un lampo lontanissimo emerge dalle viscere dell’orizzonte, seguito da un tuono leggero, come una risata che si spegne in un rantolo di tosse. Non posso attraversare qui. Mi aspettano. Sanno.

Mi avvicino al bordo delle assi sconnesse, il fiume mugola a meno di un braccio, freme, si contorce, si increspa e torna ad essere nulla. E’ questo che fanno i fluidi, è questo che siamo, tutti quanti. Esseri informi che per un istante si addensano nell’apparenza di una immagine racchiusa nel grottesco tabernacolo che chiamiamo vita, e poi si dissolvono nuovamente, rifluendo nel nulla. E’ questo che sono anche io. Ma la mia forma è differente.

Ho un corpo e non ho un corpo. Penso e conosco, ma non sono il mio pensiero e nemmeno il mio non trascurabile fardello di conoscenze. Tutto è volto ad altro. Non a me stesso, ma alla mia funzione. Io sono uno strumento. Io sono cardine. Le linee del destino mi ruotano intorno. Io sono l’effetto che produco. Io sono la mia ombra. E la mia ombra, adesso, si getta nel fiume.

Emergo a cinquanta, forse cento passi dal ponte. L’acqua è gelo puro, ma posso ignorarlo. Invece, ho goduto del silenzio dell’acqua. L’orrore di questo ventre spasmodico si è trasformato in un totale, assordante abbraccio. Tutto si è fatto muto di colpo, mi è sembrato di affondare in un sogno dentro ad un altro sogno. Per altri esseri questo sarebbe stato terrore e morte, ghiaccio che spezza il respiro, ultimi assaggi d’aria disperata prima di scomparire per sempre. Non per me, io posso proteggermi. Il mio potere viene dal mio scopo. Io sono un cardine, ma anche i cardini si possono spezzare: tutto dipende dalla forza che devono piegare.

Emergo e guardo la riva lurida e fangosa davanti a me. Esseri curiosi si contorcono nel limo viscido. Altri sembrano luminescenze vaghe sull’erba che si stende oltre l’argine. Attendo. Il canto rauco del fiume mi segue, ora sono in sintonia con lui, non sono più un ostacolo. Scorro e divento acqua torbida io stesso. Fluisco con questo essere inconsapevole della propria forza, che si agita senza uno scopo se non la propria stessa esistenza. So che non sono solo. Le membra del grande orrore universale hanno propaggini anche in queste acque tormentate. Fauci, grandi corpi di pesce, viscidi tentacoli vegetali, occhi. Non devo dar loro il tempo di avvertire la mia intrusione. Anche se il mio corpo è acqua nell’acqua, anche se sono io stesso parte del fiume, essi mi vedranno. Sapranno cosa fare.

Leggo e ascolto le correnti, spinte possenti in ogni direzione. Ma in ogni caos c’è un disegno, e quello del fiume è chiaro. Come un albero che si ramifica incessantemente, il tronco della corrente principale che scorre nel baricentro del fiume genera poche robuste correnti secondarie che si dividono in infinite correnti, sempre più deboli, sempre più lontane dalla forza centrale. In ognuna di queste miriadi di correnti il fiume perde forza e velocità, mentre l’immane spinta centrale continua ad alimentare la sua stessa insaziabile fame di scorrere. Il fiume divora se stesso, il fiume combatte se stesso, il fiume perde se stesso. Nell’eterno, ottuso dolore del suo conflitto, il fiume si uccide e rinasce mille volte al secondo. Vorrebbe fermarsi, ma la sua pulsione incessante lo trascina via? O vorrebbe scorrere in tutta la sua immane potenza, ma il suo alveo terreno lo sfinisce dissanguandolo costantemente? A me non importa, e nemmeno al fiume, che non vuole nulla: esiste semplicemente, incastrato nella necessità di essere quello che è: ciò che muore di continuo non muore mai.

A me basta seguire una corrente secondaria, poi un’altra più debole, poi un’altra ancora, resistente per qualche istante contro un riflusso, scivolare verso correnti che posso combattere e vincere. Mi faccio trasportare verso una spalla di fango che emerge a stento in un punto in cui la corrente è minima e il fiume quasi ristagna schiumando debolmente. Sento il terreno viscido sotto i piedi, appoggio le mani sulla superficie perfettamente levigata del limo, lasciando profonde impronte che verranno cancellate in pochi minuti. Scivolo, arranco, affondo le mani nel fango, punto i piedi, emergo, riaffondo, raggiungo la terra più solida, mi arrampico sulla sponda franata da cui spuntano radici rossastre e contorte, come organi interni messi a nudo da una brutale lacerazione. Afferro l’erba del prato, umida e fresca, mi tiro su di peso, rotolo su un fianco, rimango sulla schiena a guardare un cielo assente e immobile, mentre lascio una impronta di fango sul prato sotto di me.

Riprendo il respiro e la sintonia con i dintorni. Ascolto. Ci sono suoni leggeri e striscianti, la nenia triste dei grilli, e una rana isolata che si squarcia la gola in un canto ansioso e disperato. Mi alzo lentamente, guardo verso Nord. Piccoli esseri luminescenti tracciano l’aria con strie verdastre. Esseri più pesanti smuovono gli sterpi e le foglie, nel sottobosco. La mia ombra avanza e lascia dietro di sé le tracce di fango e acqua lurida. Forse non mi hanno mai davvero toccato.

La mia meta è molto oltre, lungo il tracciato incerto e pietroso del sentiero che si snoda davanti a me. La mia meta è la casa di tutte le ombre. Io non ho una meta: io sono la mia meta.